Piccoli traumatizzati gastronomici crescono

Dopo che finii  di frequentare la terza elementare, ci trasferimmo in un’altra casa e io cambiai scuola. Uno dei ricordi più chiari che ho, dei miei anni in quarta e quinta elementare, è ambientato all’ora di ricreazione. Soprattutto in quinta, sbavavo per il pan carré alla Nutella che era la merenda quasi fissa delle gemelle Francesca e Teresa. Ogni giorno speravo che almeno uno dei due panini di cui ognuna era dotata fosse considerato di troppo, per sazietà o perché una di loro volesse fare uno scambio con il mio succulentissimo pacchetto di crackers non salati del Mulino Bianco, o con uno dei miei due minipaninetti al prosciutto o al formaggio preparati da mammà mia.

Lo stesso discorso valeva anche per qualsiasi merendina. Kinder Cinque Cereali, Kinder Delice, Kinder Cereali, il Mars!!! Gli ovetti Kinder!!! Kinder bastarda. Kinder infame. Kinder boia. Ma lo stesso effetto me lo faceva anche il prosciutto cotto di Maria – e qui ci siamo spostati alle scuole medie. Perché il prosciutto mio era rigorosamente crudo, e ci dovevo fare pure la vivisezione per togliere il grasso, che per mia mamma che me lo preparava non era mai troppo, mentre per me lo era sempre. Io il prosciutto cotto l’avevo conosciuto solo alle festicciole di compleanno dei miei compagni di classe, lì non mancava mai. E fu amore al primo morso. Ma in casa nostra era bandito, “Perché ci sono i polifosfati”. Ormai quando Maria tirava fuori il suo panino, io mi saziavo anche solo con l’odore di prosciutto cotto che proveniva dalla carta stagnola. E in quei momenti non bramavo nient’altro che la partecipazione alla prossima festa di compleanno, e quindi mi ripassavo velocemente il calendario delle date di nascita dei miei compagni, maledicendo il fatto di averne soltanto una ventina, di cui alcuni, troppi, immancabilmente nati in estate, quando di feste non se ne facevano. Perché siccome non ci si vedeva a scuola, nessuno stava a fare il giro di telefonate a tutta la classe per invitarla.

A meno che – ma mi sta venendo in mente solo adesso – venissero invece invitati tutti tranne me, onde evitare stragi di panini al prosciutto cotto. Ma ritengo l’ipotesi del tutto improbabile.

Le mie merende di metà mattina erano così frustranti che mi nutrivo per disperazione. Mangiavo solo per fame, mai per gusto. Ricordo chiaramente di aver passato i minuti necessari alla mia nutrizione in classe con più sguardi – famelici – verso i pasti dei miei compagni, che non verso i pasti miei. Perché erano i loro snack, ciò che io bramavo. Non la riproposizione in miniatura della roba che a volte mangiavo a cena a casa. E che cos’era la mia bottiglietta d’acqua in confronto ai brick di tè o succo di frutta o latte e cioccolato confezionato che bevevano i miei compagni di classe?

C’era poi un’altra cosa che acuiva ulteriormente la mia sindrome da Calimero. Constatare (dato che ormai avevo imparato a memoria le espressioni facciali e i gesti di ognuno di loro mentre mangiavano) che i miei compagni non dimostravano alcun particolare piacere del palato, nell’ingerire tutte quelle schifezze che io avrei pagato per assaggiare. Manco mangiarle tutte, ma anche solo assaggiarle. Avrei pagato, se soltanto avessi avuto una paghetta. Mai avuta una. “Quello che ti serve te lo compro io”. Giusto e sacrosanto criterio educativo. “Tu dimmelo e io te lo prendo”. Fin troppo generoso. Ma cosa vuoi chiedere, a chi, fin dalla mia tenera età di due-tre anni, durante le feste dei miei compleanni invitava amici e parenti a mangiare torte, crostate e pasticcini, e al mio desiderio di assaggiarne uno, mi rispondeva: “No, quelli non si mangiano: sono pezzi di popò, non vedi che sono marroni?”

E io, piangente e incompresa: “No! Non tòòno pezzi di popò, tòòno buccuttini calamelle!”

L’avevo capito anche io: non sono pezzi di popò, sono biscottini e caramelle.

Tornando ai danni inferti dalla ricreazione alla mia psiche, ricordo che mi era davvero insopportabile vedere in tv la pubblicità di qualsivoglia snack, gelato, biscotto, persino cereale da colazione, con le attrici intente a godere mille piaceri ad occhi chiusi e labbra protruse – stesso identico effetto che avrei sperimentato anche io, se soltanto quei sapori avessero mai potuto varcare la soglia del mio cavo orale. E invece quei fortunatacci dei miei compagni, indegni latori di cotanta sorte benevola, ingurgitavano le mie amate schifezze come se stessero mangiando pane azzimo.

 

La mia colazione era sempre la stessa. Latte e Nesquik con i Coco Pops al cioccolato o i Rice Crispies bianchi. Sempre la stessa. Per anni e anni. Ricordo di aver salutato come una botta di vita epocale l’avvento sulla mia tavola dei Kellogg’s Corn Flakes. Li vidi alla pubblicità in tv, e li chiesi a mia mamma, che presa da non si sa quale impeto omicida nei confronti di sua figlia e solo di sua figlia (ai miei fratelli i corn flakes non sono mai piaciuti), acconsentì. Da allora, seguirono anni e anni di colazioni fatte solo ed esclusivamente di latte, Nesquik e corn flakes.

Io sono sempre stata una buona forchetta, non ho mai fatto storie per mangiare il pesce, la carne, le verdure o il formaggio. Mangiavo davvero di tutto. Peccato che per certe cose la varietà in tavola fosse davvero un fantasma. Una mamma ottima cuoca che ti fa primi, secondi e dessert di ogni tipo, sente di aver assolto più che egregiamente i suoi doveri nutrizionali verso i figli. E non avendo lei, da quando è nata, nessun altro desiderio a colazione che non fosse caffelatte con tre o quattro biscotti, non ha mai ritenuto scandalosa la monotonia della colazione che offriva alla sua prole. E siccome lei, di scarso appetito, non aveva mai bisogno dello spuntino di metà mattina, men che mai si andava a preoccupare delle sofferenze inferte ai figli (perlomeno, a me sì. Poi cosa provassero o cosa facessero i miei fratelli a ricreazione non l’ho mai saputo, avevo fin troppe ferite mie da curare) che dovevano fare ricreazione coi crackers non salati o col panino al prosciutto crudo, mentre su tutti gli altri banchi di tutte le classi di tutte le scuole del regno avvenivano stragi di merendine, patatine fritte e polifosfati aggiunti.

Less is more

Uscì con passo deciso, senza ombrello né cappello, con la giacca sbottonata. Quando fu in strada, il vento iniziò subito ad accompagnargli addosso le gocce di pioggia, che cadevano copiose e oblique.

Era quello che voleva.

Cosa ne sanno questi altri, della pioggia che ti sferza la testa proprio quando sei tu a volerlo.

Fattele succedere, le cose, e non subirle.

I nonni glielo avevano sempre detto: «Tu non dare retta a nessuno!». Avevano ragione. E dire che da bambino li aveva sempre presi per esagerati. Non poté evitare un sorriso: il nipote che prende i nonni per anarchici eversivi. Al massimo saranno stati un po’ asociali, o forse solo un po’ pieni di sé. E invece erano soltanto individualisti il giusto.

Stava scoprendo adesso che gli ci erano voluti vent’anni per capirlo.

E-bow the Letter

Dalla prima – e unica – lettera della famiglia Rossi Martire al condomino rumoroso, preghiamo.

Allora, Giacomo. Noi da un lato ti capiamo, perché anche a noi piace la musica, e tanto. Anche a noi piace ricevere amici e chiacchierare per ore. Però ci siamo sempre fermati, a un certo orario. Perché sennò anche una cosa bella, la fai diventare brutta e insopportabile. Come diventerebbe insopportabile per te nostro figlio se strepitasse mentre tu dormi, così lo diventano i tuoi party ad alto volume.

Ma tanto tu non puoi sentire nostro figlio quando strepita, perché il vostro chiasso sovrasta le sue urla, mentre noi due sentiamo entrambe le cose. Il casino delle tue feste inquieta anche il bimbo (che ha quattro mesi!), proprio nelle ore centrali della notte in cui noi potremmo azzeccare quelle tre ore di sonno consecutive, vitali per non collassare.

Proprio perché possiamo capire il tuo entusiasmo per la musica e la compagnia, non abbiamo ancora chiamato i carramba e l’amministratore. Ma il tuo Gods of Metal fino alle 4 di mattina, che si è già ripetuto, non può continuare. Deve finire molto prima, diciamo le 23,30. Dopodiché, mettere della bella dubstep a volume massimo 6 sarà più che sufficiente per continuare a dare ritmo ai tuoi invitati.

Cerca per favore di far restare bello ciò che è bello: la musica, i party, il nostro rapporto finora. Sei pure un bel figliolo, arrivare a detestarti e denunciarti sarebbe proprio brutto. Da sfigati.

Dai, che a giugno andiamo a vederci insieme Marilyn Manson!

Rock’n’Roll forever,

Tania e Marco